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Il processo civile taglia tre anni

di Andrea Maria Candidi

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1 giugno 2009


Vuole essere la ricetta che risolleva le condizioni della giustizia malata. A cominciare dall'estremo tentativo di cancellare le conseguenze più evidenti, l'eccessiva lunghezza dei processi. Per ora, la riforma della giustizia civile appena varata dal Parlamento, è solo l'incubo di avvocati, magistrati e personale delle cancellerie dei tribunali. Che troppo spesso assistono, a partita già iniziata, al rimescolamento delle carte provocato dalle continue leggi.
Figurarsi quando queste sdoppiano, se non addirittura triplicano, i tavoli su cui giocare, vale a dire le procedure da seguire. Vecchie norme, con una manciata di eccezioni, per i procedimenti ordinari pendenti; nuove regole per quelli che arriveranno, i più semplici dei quali potranno seguire anche una strada alternativa (nuova di zecca anch'essa).
È questa la triplice realtà con la quale gli utenti e gli operatori della macchina della giustizia civile – ma sono in arrivo ritocchi anche nelle altre giurisdizioni – dovranno presto fare i conti. L'appuntamento è con l'entrata in vigore della riforma (quindici giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta, che è prevista entro la fine della settimana), il cui intento, tagliare i tempi dei processi, è più che lodevole.
La ricetta è ispirata al rispetto di una formula che ormai vincola tutti gli ordinamenti del Vecchio continente, quella del «3+2+1»: non più di tre anni per chiudere il giudizio di primo grado, due per il secondo e uno per l'ultimo. Addirittura un disegno di legge all'esame del Senato (l'atto è il n. 1440 che peraltro contiene la riforma del processo penale) mette la formula nero su bianco, con i sei anni totali quale limite invalicabile per la durata di un procedimento, proprio per contenere l'esposizione ai rimbrotti della Corte europea dei diritti dell'uomo e, quindi, per porre un freno al proliferare di richieste di indennizzo per l'eccessiva durata dei processi (oltre 32 milioni di euro liquidati a tale titolo nel 2008 in Italia).
Vale la pena ricordare che la durata media di un procedimento civile in Italia è ben al di sopra della soglia, per così dire, di sicurezza. Nel corso delle cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario è stato fornito il dato ufficiale: la durata in primo grado è di 960 giorni, in appello di 1.509 (per un totale di 6 anni e 10 mesi). In pratica, solo i primi due gradi di giudizio consumano, anzi superano, l'intera "dotazione".
È così che nelle pieghe del provvedimento si annida una lunga serie di tagli ai tempi processuali, soprattutto di riduzione di quelli morti. Cioè di quelle pause più o meno lunghe tra due fasi, messe a disposizione delle parti per aggiornare le proprie strategie in conseguenza di un fatto sopravvenuto o di una novità probatoria. Così, tra riduzioni dei termini lunghi di impugnazione tra un grado e l'altro di giudizio (ad esempio dal tribunale all'appello), contrazione delle sospensioni richieste dalle parti e tagli sui tempi di riapertura della causa dopo un rinvio, le nuove norme consentono di risparmiare fino a 40 mesi (si veda, per il dettaglio degli interventi, la grafica a lato).
Non si tratta, sia chiaro, di una riduzione che possa avere un effetto complessivo su ogni singolo procedimento. Non tutte la cause infatti sono complicate al punto tale da sviluppare un numero così alto di interruzioni, sospensioni, rinvii e così via, ma il saldo finale del tempo potenzialmente risparmiato individua il cromosoma più evidente della riforma. Che con il taglio dei tempi processuali intende assestare un colpo al maxi arretrato (in una indagine riportata sul Sole 24 Ore dello scorso 9 marzo avevamo registrato oltre 10milioni di cause pendenti, la metà abbondante delle quali civili).
Dunque sono tre i codici che bisognerà seguire di qui a breve per la risoluzione delle cause civili ordinarie (oltre naturalmente a quelle che rientrano nella competenza, allargata, dei giudici di pace). Il primo capitolo riguarda i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della nuova legge: per questi sarà sufficiente rispolverare le vecchie copie del Codice di procedura civile.
Per affrontare le cause che invece saranno instaurate a partire dall'entrata in vigore della riforma sarà necessario procedere all'aggiornamento dei tomi di riferimento: da una parte si seguiranno le nuove regole del processo ordinario di cognizione; dall'altra, per le cause più semplici, oggi assegnate al tribunale in composizione monocratica, si potranno seguire, ma non è obbligatorio, anche le regole del processo sommario di cognizione (la cui trattazione «deformalizzata» è riassunta nell'intervento qui sotto).
Insieme a queste misure, la legge rafforza quella specie di canone di comportamento processuale, contenuto in alcuni angoli del Codice di procedura civile, che punisce chi tenta di lucrare qualche vantaggio dalla macchinosità del sistema. Di grande interesse quella che punisce non la parte che perde nel processo, ma quella che vince. Le spese processuali sono infatti a carico di quest'ultima se, in tribunale, ottiene un risultato meno vantaggioso di quello che aveva raggiunto nella fase della conciliazione: che però aveva mandato all'aria per cercare maggior fortuna in aula.
a.candidi@ilsole24ore.com

1 giugno 2009
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